Le boyband degli anni Novanta non erano il sogno dorato che immaginiamo

La docuserie Dirty Pop racconta la vicenda del manager che fatto la fortuna di boyband come Backstreet Boys e Nsync. Ma che le ha anche clamorosamente truffate C'era chi era fan della prima ora dei Take That. O chi preferiva versioni alternative come i Westlife o i Boyzone. O ancora, alle soglie del Duemila, chi si divideva tra team Backstreet Boys e team Nsync. Sta di fatto che le boyband sono state un fenomeno che, tra svariate incarnazioni e con intensità differenti, ci ha accompagnato per parecchi decenni. (Vogue Italia)

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Big Poppa, così come amava farsi chiamare una volta spostati i propri affari da New York a Orlando, in realtà aveva una gran passione per i dirigibili, provò ad entrare nel business nel 1980 con la Airship International, ma il volo inaugurale si risolse con uno schianto. (Open)

Backstreet Boys e Nick Carter, ‘Nsync e Justin Timberlake, O’Town, Natural, US5 e naturalmente i precursori, i New Kids on the Block: il gruppo che gli fornì l’ispirazione, mostrando quanti soldi si potevano fare con una boy band di successo. (Gamesurf)

Dirty Pop: la truffa delle boyband, recensione: l'arte della truffa è un brano incomprensibile

Un universo che il documentario Dirty Pop: la truffa delle boyband disponibile su Netflix indaga, recupera, inserendosi tra i tratteggi di una personalità come quella di Lou Pearlman, manager e fautore primordiale di band come i Backstreet Boys, o gli Nsync. (Movieplayer)