Guerra tra privilegi e RdC
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«Ho ricevuto, signore, il vostro nuovo libro contro il genere umano; ve ne ringrazio; [...]. Non era mai stato usato altrettanto spirito nel tentativo di renderci bestie. Leggendo la vostra opera viene voglia di camminare a quattro zampe. Tuttavia, avendo perso quest'abitudine da più di sessant'anni, mi è purtroppo impossibile riprenderla ora [...]. Non posso nemmeno imbarcarmi per andare a visitare i selvaggi del Canada [...] perché i malanni ai quali sono condannato rendono indispensabile un medico europeo; [...]».
Con questi toni di feroce ironia - si legge in una nota massinica di alcuni anni fa -, in una lettera datata 30 agosto 1755, Voltaire si rivolgeva a Jean-Jacques Rousseau commentando il Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, nel quale il filosofo ginevrino contrapponeva, come è noto, un edenico stato di natura - caratterizzato dall'uguaglianza sostanziale di ogni essere umano - al tempo presente, un cosiddetto stato civile dominato dalla competizione, dall'oppressione e dai bisogni superflui, nel quale avrebbe avuto origine la diseguaglianza tra gli esseri umani.
Nonostante la beffarda reazione di Voltaire, l'idea di una fondamentale uguaglianza del genere umano era destinata a prendere rapidamente piede nell'Europa illuminista e a essere presto trasferita dal piano della speculazione filosofica a quello dei diritti politici. Così esordisce infatti la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: «Gli uomini nascono e permangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali
non possono essere fondate che sull'utilità comune».
Un'utilità comune delle distinzioni sociali che è in qualche modo meglio specificata all'art.6 della stessa Dichiarazione: «Tutti i cittadini, essendo uguali agli occhi della legge sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, secondo la loro capacità e senz'altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti».
Si trova qui in nuce una prima testimonianza del concetto di meritocrazia nell'accezione contemporanea, come mutuato - seppur travisandone largamente il senso originario - dalla satira distopica di Michael Young (The rice of the meritocracy 1870-2033: an essay on education and inequality, 1958).
In effetti, a partire dall'epoca delle grandi rivoluzioni democratiche, la complessa dialettica tra diseguaglianza e merito, tra parità nei diritti e differenza nei premi individuali, tra disparità socio-economiche e uguaglianza delle opportunità, ha permeato di sé ogni riflessione filosofica, politica ed economica che aspirasse a intervenire sulla contemporaneità: dalle grandi ideologie socialista e liberista - rispettivamente devote all'uguaglianza e all'iniziativa (merito?) individuale - alle riflessioni sui principi di equità e giustizia in un mondo dalle disparità sempre più marcate e dolorose (pensiamo almeno ai lavori di John Rawls e Amartya Sen), fino alle grandi questioni che scuotono in questi anni le nostre democrazie - e che non possono più essere eluse - sul rapporto tra élites e popolo, competenza e rappresentanza.
Oggi, l'urgenza dei temi connessi a diseguaglianza e merito - le relazioni tra Nord e Sud (del mondo e del paese), tra capitale e mobilità sociale, tra privilegi e istruzione - rende ancor più necessaria una riflessione ampia e trasversale, che tocchi gli ambiti della filosofia, dell'etica, della politica, dell'economia e dell'educazione. Sì: dell’educazione.
PaoloBattagliaLaTerraBorgese