La morte di Alex Garufi e il peso invisibile del disagio trans
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La notizia del suicidio di Alex Garufi, giovane creator trans notə sui social come Alexandra, ha riportato alla luce una questione troppo spesso ignorata: il peso insostenibile che ricade sulle spalle di chi affronta un percorso di transizione in un contesto sociale e istituzionale ancora impreparato. La pistola usata, appartenente al padre guardia giurata, ha spento una vita a soli 21 anni, mentre le indagini della procura di Monza cercano di fare luce su eventuali responsabilità esterne, incluso un fascicolo per istigazione al suicidio. Ma al di là delle dinamiche giudiziarie, resta un dato incontrovertibile: le persone trans, soprattutto giovani, vivono un disagio psicologico sproporzionato, aggravato da discriminazioni, isolamento e una cronica mancanza di sostegno.
Su TikTok, dove Alex condivideva frammenti della propria transizione, la reazione è stata immediata e dolorosa. La rabbia, però, anziché tradursi in riflessione, si è dispersa in un vortice di accuse incrociate, dimostrando quanto persino nelle piattaforme che dovrebbero essere safe space prevalga spesso la logica del capro espiatorio. Ivano Zoppi, segretario di Fondazione Carolina, ha sottolineato il paradosso di un’esistenza sempre più legata alla ricerca di approvazione online, dove il giudizio altrui diventa una gabbia. Eppure, ridurre tutto a una questione di social network sarebbe fuorviante: il problema è sistemico.
I numeri, del resto, parlano chiaro. Le persone trans e non binarie registrano tassi di depressione e ideazione suicidaria ben superiori alla media, frutto di un contesto che troppo spesso le costringe a combattere battaglie solitarie. La morte di Alex non è un episodio isolato, ma l’ultimo anello di una catena che lega marginalizzazione, difficoltà nell’accesso alle cure e pregiudizi radicati. E mentre la politica discute di leggi sull’identità di genere, c’è chi, come Alex, non riesce ad aspettare.