Il parroco libanese: che colpa abbiamo per meritarci tanto odio?

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Avvenire ESTERI

Dal Web La sua è una testimonianza di solidarietà e accoglienza. Nel convento di Tiro, città libanese di cui è parroco, padre Toufic Bou Mehri, ospita le famiglie in fuga dall’orrore e dalla devastazione. Però non si rassegna alla logica dell’odio e della violenza ma anzi crede ancora nella forza della preghiera. Come dimostra questa invocazione, in cui si rivolge direttamente alle armi, ai macabri strumenti della morte e della distruzione. (Avvenire)

Su altre testate

Durante la guerra in Siria, cominciata nel 2011, oltre 1,5 milioni di siriani, secondo le autorità libanesi, avevano trovato rifugio nel Paese dei Cedri. Le stime parlano di circa 100mila sfollati tra libanesi e siriani che hanno varcato i confini della Siria. (Servizio Informazione Religiosa)

Monsignor Mounir Khairallah, vescovo maronita di Batroun, è giunto a Roma per partecipare ai lavori del Sinodo e incontrare papa Francesco, ma il suo pensiero è rivolto alla sua diocesi colpita dai bombardamenti israeliani. (Famiglia Cristiana)

Sua nipote Fatima mangia una merendina che le ha lasciato un passante. «Dormiremo ancora in strada questa notte, abbiamo chiesto aiuto ma sia le scuole che le moschee sono piene ormai». (Corriere della Sera)

Lascio Beirut terrificato dalla ferocia degli uomini

Ormai vive qui, insieme alla sua famiglia e ad altri parenti, una dozzina di persone in tutto. Sarah sarebbe dovuta tornare sui banchi di scuola la settimana scorsa. (Il Fatto Quotidiano)

Dopo sette giorni di bombardamenti e l’avvio della campagna di terra, in Libano la situazione sta letteralmente precipitando. A spiegarlo è la Direttrice generale dell’Unicef, Catherine Russell, che si è detta “profondamente preoccupata per il rapido deterioramento della situazione umanitaria in Libano. (LA NOTIZIA)

Più che paura per me, visto che non ho mai corso rischi oggettivi, sono stato terrificato di sperimentare di quale brutalità é capace la nostra umanitá, di capire cosa vuol dire avere la guerra a casa propria, invece che in quella degli altri. (Primocanale)