Il caso Yara Gambirasio e la controversa serie Netflix

Il caso di Yara Gambirasio, una tredicenne scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, è tornato alla ribalta grazie a una docuserie distribuita da Netflix. Il corpo senza vita della ragazza è stato ritrovato tre mesi dopo in un campo a Chignolo d'Isola. Massimo Bossetti, un muratore all'epoca 43enne, è stato l'unico imputato e condannato all'ergastolo in primo e secondo grado. La Cassazione ha confermato i due gradi di giudizio.

Andrea Pezzotta, legale di parte civile della mamma di Yara, Maura Panarese, ha espresso il suo punto di vista sulla serie. Secondo Pezzotta, la serie sembra essere stata creata con l'obiettivo di convincere il pubblico dell'innocenza di Bossetti. L'avvocato sostiene che se la serie fosse stata colpevolista, avrebbe avuto un pubblico molto più limitato.

La famiglia della vittima non ha partecipato al progetto Netflix. L'avvocato Pezzotta spiega che la linea della famiglia è sempre stata chiara: i processi si fanno in tribunale, non su Netflix.

Il documentario in cinque puntate trasmesso su Netflix mette in dubbio la solidità degli elementi che hanno portato alla condanna di Bossetti. Tutto ruota intorno al Dna, uno degli elementi principali su cui si basa la condanna, che viene ritenuto una prova debole. Nonostante ciò, i legali di Bossetti continuano a chiedere che le prove vengano riesaminate.

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